Carla
Voglio inaugurare questo blog (dai, il primo post non era serio...) con un racconto datato marzo 2003. Alcuni lo avranno già letto, per altri sarà una (spero piacevole) novità.
Ho scelto un racconto così vecchio non perché non ne abbia più scritti altri da allora, ma semplicemente perché riesco ancora a sentirlo dopo tutti questi anni.
In un attimo tutto è finito, noi due distesi sull’erba, stupefatti, inorriditi.
Sono sudato, nonostante non sia la prima volta che mi capita non riesco mai ad essere pronto.
Carla piange, sputa e si incazza, seduta sul ciglio della strada, Carla che sputa per terra da quando era bambina, sputa per: “liberarsi del sapore amaro della sua vita”, dice lei. Alle elementari sembrava un maschiaccio, mani in tasca e sempre a sputare, i compagni la prendevano in giro.
La stessa Carla che ora è una donna e sputa sul mondo, su tutto ciò che la fa incazzare, su tutto ciò che le fanno fare.
Quando le dici “Carla ma lo sai che arrabbiarsi non serve a nulla… non cambia nulla” lei ti sorride, un sorriso sprezzante, e risponde: “sì, ma almeno quando sono incazzata non riesco a pensare lucidamente”.
Continua a sputare Carla, continua a incazzarti se questo non ti fa pensare, perché ho paura delle conseguenze di un tuo pensiero. Certo, raggiungeresti il tuo obiettivo senza difficoltà, ma probabilmente il tutto si trasformerebbe in una reazione nucleare, porteresti via con te quasi tutto, ed è questo che mi spaventa.
Quindi piange, sputa e si incazza. Io rimango a guardarla per ore, immobile, seduto sul ciglio della strada, sperando.
Poi si alza, si gira e mi guarda, gli occhi bagnati di lacrime e negli occhi quell’incazzatura che non l’abbandona mai, i pugni chiusi lungo i fianchi, le dita a stringersi fino a diventare bianche.
Si è morsa il labbro. Un rivolo di sangue le cola sul mento.
Mi guarda, sta parlando. Vedo che muove la bocca, ma non sento quello che dice, le chiedo di ripetere, non mi ascolta e allora capisco. Parla con se stessa. Sta lottando.
Ci ritroviamo di nuovo nel buio, nell’inferno della sua mente con quelle urla distanti.
Perde.
Ho scelto un racconto così vecchio non perché non ne abbia più scritti altri da allora, ma semplicemente perché riesco ancora a sentirlo dopo tutti questi anni.
In un attimo tutto è finito, noi due distesi sull’erba, stupefatti, inorriditi.
Sono sudato, nonostante non sia la prima volta che mi capita non riesco mai ad essere pronto.
Carla piange, sputa e si incazza, seduta sul ciglio della strada, Carla che sputa per terra da quando era bambina, sputa per: “liberarsi del sapore amaro della sua vita”, dice lei. Alle elementari sembrava un maschiaccio, mani in tasca e sempre a sputare, i compagni la prendevano in giro.
La stessa Carla che ora è una donna e sputa sul mondo, su tutto ciò che la fa incazzare, su tutto ciò che le fanno fare.
Quando le dici “Carla ma lo sai che arrabbiarsi non serve a nulla… non cambia nulla” lei ti sorride, un sorriso sprezzante, e risponde: “sì, ma almeno quando sono incazzata non riesco a pensare lucidamente”.
Continua a sputare Carla, continua a incazzarti se questo non ti fa pensare, perché ho paura delle conseguenze di un tuo pensiero. Certo, raggiungeresti il tuo obiettivo senza difficoltà, ma probabilmente il tutto si trasformerebbe in una reazione nucleare, porteresti via con te quasi tutto, ed è questo che mi spaventa.
Quindi piange, sputa e si incazza. Io rimango a guardarla per ore, immobile, seduto sul ciglio della strada, sperando.
Poi si alza, si gira e mi guarda, gli occhi bagnati di lacrime e negli occhi quell’incazzatura che non l’abbandona mai, i pugni chiusi lungo i fianchi, le dita a stringersi fino a diventare bianche.
Si è morsa il labbro. Un rivolo di sangue le cola sul mento.
Mi guarda, sta parlando. Vedo che muove la bocca, ma non sento quello che dice, le chiedo di ripetere, non mi ascolta e allora capisco. Parla con se stessa. Sta lottando.
Ci ritroviamo di nuovo nel buio, nell’inferno della sua mente con quelle urla distanti.
Perde.
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